venerdì 18 maggio 2012

Antonio Pagliaro, La notte del Gatto nero


La notte del Gatto nero, l’ultimo romanzo di Antonio Pagliaro, toglie il fiato. No, non lo dico in senso figurato, lo fa davvero, tanto che a più riprese ho dovuto chiudere il volume per riprendere a respirare e tornare a illudermi che quelle pagine fossero solo finzione.
La storia che ci racconta è semplice, fatta di persone comuni, come i nostri vicini di casa, i nostri colleghi. Come noi. E quello che capita loro ci sembra impossibile, inaccettabile, inverosimile, perché ci illudiamo che quanto capita loro sia riservato a disgraziati, delinquenti, poco di buono. Viviamo nella serena convinzione che proseguendo dritti sul nostro sentiero ben tracciato, senza far nulla di male, pagando le tasse, rispettando il prossimo, nulla di male potrà accaderci, rimarremo sempre “in carreggiata” e avanzeremo sereni trovando al massimo qualche buca nel sentiero. 
Eppure Pagliaro lo diceva già nel suo secondo romanzo I cani di via Lincoln: "quando nessuno è innocente fare giustizia non è possibile". Ed è così: nessuno è innocente perché chiunque può diventare colpevole, dall’oggi al domani, nel giro di un minuto. E poco importa se lo sia davvero o meno, lo diventerà. In un paese come l’Italia, infatti, dimostrare la propria innocenza è quasi impossibile: le false notizie si diffondono velocemente mentre la realtà arranca a fatica. E questo romanzo ce lo dimostra senza troppe accuse, senza retorica. È così che un professore qualunque, padre di un bravo ragazzo qualunque, perde ogni innocenza nel momento in cui il figlio viene arrestato senza spiegazioni. 
Pagliaro, con il classico stile asciutto e tagliente che lo contraddistingue, questa volta senza nemmeno il balsamo dell’ironia cui ci ha sempre abituati, ci mostra cosa accadrebbe a ognuno di noi, persona semplice, onesta, innocente, qualora inciampasse in una buca imprevista che lo facesse uscire di strada. Una volta fuori dal sentiero rientrarci è impossibile. La situazione che si presenta a Giovanni una volta che il figlio viene incarcerato è Kafkiana, ricorda a tratti Il Processo, ma manca quell’aspetto onirico che ci fa tirare il fiato alla fine dei racconti di Kafka rassicurandoci che “tutto questo è impossibile”. Ciò che accade a Giovanni è invece spaventosamente possibile, anzi plausibile, e questo, come dicevo, toglie il fiato. Fa paura riflettere su quello che ci mostra Pagliaro, il quale scosta la bella tendina posta davanti alla realtà per farci dormire tranquilli, quella tendina che ci fa credere che se non si farà nulla di male, nulla di male accadrà, e che comunque ci sarà qualcuno a difenderci: lo stato, un avvocato, la legge. 
Svelandoci la realtà nella sua crudezza Pagliaro ci mostra anche la corruttibilità del genere umano, persino di quello migliore, che quando è colpito nell’istinto (e quale istinto è più forte della difesa del proprio figlio?) si perde completamente. Una faticosa riflessione, una dura presa di coscienza, che Pagliaro ci fa condurre con passo fermo e sicuro accompagnandoci attraverso un racconto misurato, magistralmente costruito e condotto, destinato a lasciare un segno nell’animo del lettore.

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